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sabato 14 luglio 2012

Bentornato, Mr. Keynes. Intervista a Marco Passarella su "L'austerità è di destra. E sta distruggendo l’Europa".

 
di  A. Lalomia

Il dibattito su crescita e occupazione in tempo di crisi si è arricchito di un prezioso volumetto L’austerità è di destra. E sta distruggendo l’Europa  1  .  Ne sono autori due giovani ma già autorevoli economisti italiani, Emiliano Brancaccio  e  Marco Passarella,  che con il loro pamphlet hanno sollecitato una serie di riflessioni originali ed acute sulle politiche adottate dall’Unione Europea per far fronte all’emergenza economica e sulla stessa fragilità della costruzione comunitaria, che rischia di disgregarsi a causa proprio dell’incapacità di affrontare in modo concreto ed equo la crisi.
Ciò che ritengo particolarmente importante dell’opera dei due autori è il fatto di aver  ‘riattualizzato’ John Maynard Keynesdi avergli restituito un ruolo di centralità all’interno del dibattito economico, di averlo proposto come ragionevole e valida alternativa alle politiche fallimentari che si stanno portando avanti da anni per cercare di spegnere l’incendio che sta devastando le economie di intere aree del continente europeo.

 John Maynard Keynes
Adesso che anche la Confindustria ha espresso il suo netto dissenso su queste politiche, auspicando interventi che sono in linea con il pensiero di Keynes,  questo gigante dell’economia riacquista quel primato che gli è stato negato per anni, anche sull’onda emotiva di stolti ed infondati pregiudizi politici, per cui lo studioso britannico è stato etichettato  (e in certi ambienti continua ad essere etichettato)  come il sostenitore di un’economia para-marxista.  In realtà, solo chi è in malafede o non conosce nulla del pensiero di Keynes può esprimere giudizi così superficiali e beceri.  Keynes  -con buona pace di quanti continuano a definirlo comunista-  è uno strenuo difensore del sistema capitalistico, ma si rende conto che questo sistema, in quanto intrinsecamente instabile, è minato da contraddizioni e da errori, che alla lunga potrebbero implicarne l’implosione.  Egli propone quindi che, proprio  nei momenti di crisi economica, lo Stato, anziché ritirarsi e lasciare al mercato il compito di autoregolamentarsi, intervenga energicamente per indirizzare l’economia verso sentieri virtuosi, che consentano un riassorbimento della disoccupazione, il massiccio sostegno della domanda creando soprattutto nuovi posti di lavoro, l’introduzione di norme severe in campo finanziario contro la speculazione, la tutela dei risparmiatori, una selezione della platea di contribuenti, imponendo aliquote fiscali più robuste ai detentori di grandi patrimoni, l’ampliamento del welfare. 

Indicazioni che Franklin Delano Roosevelt cercherà di mettere in pratica, incontrando però forti ostilità in alcuni ambienti legati al grande capitale, compresa una parte della Corte Suprema.

Di alcuni dei temi affrontati nel testo ho parlato con Marco Passarella 2 già docente presso l’Università di Bergamo e attualmente ricercatore presso la prestigiosa Leeds University Business School.

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Note
1  Qui  per la lettura di alcune pagine del saggio.

2  Su Passarella, cfr. anche il post  Un modo originale di concepire  -e combattere-  la crisi economica , pubblicato il 14 maggio 2012 su questo stesso blog.
Sulle diverse strategie per uscire dalla crisi seguendo gli insegnamenti di Keynes, consiglio senz'altro l'ottimo Keynes blog.  A proposito dell'economista britannico, vorrei segnalare questo video storico, dove Keynes illustra i benefici derivanti dalla sospensione del Gold Standard.
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1.  Quasi tutte le recensioni del libro lodano la vostra competenza e  il vostro sforzo di rendere comprensibili al grande pubblico anche concetti non sempre facili.  In effetti, il saggio, oltre ad adottare una prospettiva originale rispetto a quella del pensiero economico prevalente, ad essere ben strutturato, agile ma rigoroso, ricco di dati, è chiaro, scorrevole, con un linguaggio sobrio ma elegante, didatticamente magistrale, direi.  In alcune recensioni, però  (p.e.  qui), si fa notare che definire  ‘di destra’  l’austerità non corrisponde al vero, perché, ad esempio  (come peraltro ricordate voi stessi),  Enrico Berlinguer già nel 1977  "lanciò la parola d'ordine dell’ ‘austerità’ in contrapposizione ad un modello di sviluppo «fondato su quella artificiosa espansione dei consumi individuali che è fonte di sprechi, di parassitismi, di privilegi, di dissipazione delle riserve, di dissesto finanziario» ".  Per non parlare del fatto che la linea del rigore finanziario perseguita dall’attuale governo è sostenuta dallo stesso Presidente della Repubblica e da autorevoli esponenti di partiti certo non di destra  (penso ad esempio ad Ichino).
Per quanto mi riguarda, il titolo mi sembra più che altro una garbata provocazione, rivolta forse più a certi ambienti della sinistra, che hanno accettato e continuano ad accettare frettolosamente misure finanziarie molto discutibili  (e che finora hanno aggravato lo scenario generale), piuttosto che alla destra.  Sarebbe, infatti, ingeneroso etichettare la destra come una forza politica senza alcuna distinzione interna, come un blocco reazionario compatto e pregiudizialmente ostile nei confronti dei ceti più deboli.  Al riguardo, vorrei ricordare che un economista del calibro di Antonio Martinotra i più fedeli seguaci delle teorie di Milton Friedman  (che considera come il suo maestro)  e ben poco sensibile al messaggio di J. M. Keynes, si è più volte espresso contro la decisione di ‘costituzionalizzare’ il pareggio di bilancio, definendo la decisione del governo una vera e propria sciocchezza  -che oltretutto, vorrei aggiungere, non ha minimamente rassicurato i mercati, né allentato in modo definitivo la morsa dello spread.  (Per inciso, Martino, a fronte della debolezza dell’Euro, auspica il ritorno alla lira.)  Il pareggio del bilancio, il mantra della Destra Storica  (ottenuto con il tributo odiosissimo della ‘tassa sul macinato’)  e dell’attuale leadership politico-finanziaria europea, significa poco o nulla e, anzi, si rivela una misura sterile, demagogica, del tutto controproducente, irrazionale e autolesionista (un autentico boomerang), se si risolve soltanto in nuovi, pesanti tributi, tagli  (ma non alle spese forsennate della politica nazionale e degli enti locali), privatizzazioni attuate senza logica, compressione dei diritti sindacali, non solo non crea nuove opportunità di lavoro, ma, al contrario, punta in modo quasi maniacale sui licenziamenti, non colpisce i grandi capitali, i privilegi, mantiene inalterati  gli sprechi e le disuguaglianze.
Esso equivale soprattutto a bruciare redditi che potrebbero alimentare la domanda  (che quindi rimarrà fiacca, con ulteriore indebolimento delle aziende, che saranno costrette a rinunciare agli investimenti e, anzi, ad espellere ancora di più la forza lavoro in eccesso), redditi su cui il fisco potrebbe imporre prelievi significativi, finalizzati proprio al pareggio del bilancio.  Alla luce di tale premessa  -e di altri ragionamenti che voi sviluppate con grande lucidità nel testo-,  non sarebbe stato più opportuno dare al libro il titolo  L’austerità è demenziale e sta distruggendo l’Europa ?  E questo con tutto il rispetto per chi soffre di disturbi del comportamento.
  
 La sede della BCE a Francoforte
Partiamo dal titolo. Non possiamo nascondere che la nostra scelta abbia (anche) una valenza provocatoria. In effetti, a partire dagli anni novanta le esperienze di governo delle forze di centrosinistra in Italia (si pensi ai governi Amato, Ciampi, Dini, Prodi e d’Alema), in Europa (si pensi, a titolo di esempio, al governo Schroeder in Germania o al governo Zapatero in Spagna) e negli Stati Uniti (si pensi alla doppia amministrazione Clinton), sono, infatti, state tutte contrassegnate da una particolare attenzione per il "rigore" dei conti pubblici. Anche dopo lo scoppio della crisi cominciata nell’estate del 2007, le maggiori forze del socialismo europeo hanno preferito aderire acriticamente alla litania rigorista proveniente dalla Banca Centrale Europea (d’ora in poi BCE) e dal governo conservatore tedesco, anziché proporre una autonoma analisi critica delle cause ultime delle difficoltà dell’Eurozona. Quando definiamo quelle politiche "di destra" ci proponiamo, perciò, di andare oltre la mera topologia parlamentare. In particolare, le politiche di "austerità" sono di destra per due ragioni, una di ordine politico-antropologico, ed una di ordine economico-sociale. Anzitutto, la cultura dell’austerità è di destra perché ingenera nelle classi lavoratrici una accettazione acritica del peggioramento delle proprie condizioni materiali. Tale condizione viene riguardata come l’esito di leggi economiche "naturali" ("non si può vivere al di sopra dei propri mezzi"), perciò incontestabili e, in ogni caso, immodificabili. Quel che è peggio, essa induce un atteggiamento passivo nei confronti delle politiche adottate dalle classi dominanti per scaricare il peso della crisi sui lavoratori e gli strati sociali più deboli. La cultura dell’austerità è, dunque, di destra nel senso che essa veicola una concezione conservatrice, restauratrice, a tratti reazionaria, dei rapporti sociali. D’altra parte, le politiche di austerità sono di destra proprio perché esse perseguono la risoluzione della crisi mediante una via che passa per l’inferno della disoccupazione di massa, della precarizzazione delle condizioni di lavoro, della distruzione dello stato sociale, della deflazione competitiva e, perciò, della stessa messa in discussione dell’unità europea.


 Franklin Delano Roosevelt
2.  Come già accennato sopra, il debito sovrano non è il vero problema -basti pensare al Giappone, che ha un debito ben più alto del nostro, ma non è al centro di speculazioni-  e inserire il pareggio del bilancio in Costituzione serve a ben poco. Questa verità elementare  (pareggio del bilancio)  era stata capita molto bene da J. M. Keynes e F. D. Roosevelt cercò di metterla in pratica, pur tra mille difficoltà creategli dal grande capitale, che estendeva la sua influenza anche su settori della Corte Suprema. 
A parte quanto evidenziato in altri punti del testo, che cosa alimenta, secondo lei, questo estenuante leit-motiv, secondo cui, appunto, bisogna aggredire la spesa pubblica, altrimenti si perde credibilità a livello internazionale e quindi nessuno comprerà più i nostri bond, né investirà nel nostro Paese e di conseguenza lo Stato non potrà più pagare il suoi dipendenti ?  Una certa sclerosi mentale, per cui, arrivati ad un certa età, le idee diventano sbiadite, confuse, disordinate, i nostri leader non hanno più la forza o il coraggio di rinunciare ai cari e rassicuranti schemi che hanno accompagnato la loro vita ?  I diktat della Germania, che quanto ad autentico  -non quello che dichiara, considerato da molti falso  (d’altronde, non è l’unica a dire le bugie)-  debito pubblico, non sta certo meglio di noi e inoltre pratica una politica salariale su cui si potrebbe discutere)  ?  Doppi fini di casta, su cui si preferisce glissare ?  Eppure i risultati del rigore parlano chiaro.  Tagli e tasse  (ma solo, le seconde, per i ceti medio-bassi, perché il grande capitale è rimasto praticamente indenne)  non hanno risolto granché, causando anzi un crollo dei consumi e degli investimenti, un aumento della disoccupazione, un’ulteriore compromissione di quel che rimane del welfare  (basti pensare all’accanimento contro le pensioni), il persistere di un forte disavanzo pubblico, un inasprimento delle tensioni sociali e fughe disperate nell’annientamento della propria persona.  Le banche, già aiutate generosamente con montagne di fondi pubblici  (cioè con i nostri soldi),  erogano sempre meno prestiti sia alle imprese (il numero dei fallimenti è aumentato in misura impressionante)  che ai singoli. 
Per quanto riguarda l’Italia, gli ultimi dati del MEF sono fin troppo espliciti: nel primo trimestre del 2012  le entrate fiscali sono aumentate soltanto dello 0,7% rispetto allo scorso anno e sono addirittura diminuite del 6,2% nel mese di marzo; gli incassi relativi all’IVA hanno subito una flessione dello 0,1% nel primo trimestre 2012 e dell’1,8% a marzo (malgrado l’aumento dell’inflazione, superiore ormai al 3%).  Queste cifre indicano chiaramente che l’Italia si è ormai avvitata in una spirale recessiva che rischia di diventare ingovernabile, caratterizzata in particolare da una forte caduta della domanda. 
E malgrado questo, contro ogni evidenza, si continua imperterriti in politiche restrittive, destinate a peggiorare la situazione. 

Quello dell’Eurozona è un problema di deficit estero, non di deficit del bilancio statale. Detto in termini semplici, il divario competitivo tra economie "forti" (o "centrali") del Nord-Europa ed economie "deboli" (o "periferiche") del Sud-Europa si è tradotto, dall’introduzione dell’euro, in surplus sistematici della bilancia commerciale (e più in generale della bilancia dei pagamenti) dei primi, e in deficit, altrettanto sistematici, delle esportazioni nette (ma anche in oneri crescenti sui capitali esteri) dei secondi. Tali deficit hanno riguardato, anzitutto, il settore privato e solo in un secondo momento, a causa dei salvataggi bancari, dei cosiddetti "stabilizzatori automatici" (sussidi di disoccupazione, ecc.) e dell’aumento dei tassi di interesse reali sui titoli del debito, si sono ripercossi sui bilanci dei settori pubblici dei paesi deboli. Il fatto è che l’adozione della valuta unica implicava, per definizione, l’impossibilità di aggiustamento del cambio per i paesi che vi aderivano. Sennonché, i divari nazionali nella dinamica del costo del lavoro per unità di prodotto (ossia nel rapporto tra salario per unità di lavoro e prodotto per unità di lavoro) non potevano che tradursi in squilibri crescenti dei conti esteri, e dunque in una sofferenza debitoria anch’essa crescente del settore privato (compreso il settore bancario) dei paesi che non fossero riusciti a tenere il passo dell’economia più forte, quella tedesca. In tal senso, la crisi americana cominciata nell’estate del 2007 ha certamente rappresentato l’elemento di innesco della crisi europea, ma non ne costituisce la causa prima. Con riferimento a quest’ultima, l’adozione di politiche di austerità, ossia di provvedimenti di restrizione fiscale (taglio delle spesa pubblica corrente e aumento della pressione fiscale) e di ulteriore precarizzazione del mercato del lavoro, non deve essere considerata "irrazionale". Essa, ha, invece, lo scopo preciso di perseguire il riequilibrio della bilancia dei pagamenti mediante una compressione, ad un tempo, dei consumi interni e del costo del lavoro, generando per questa via una riduzione delle importazioni ed un aumento delle esportazioni. Tale politica, se applicata in un piccolo paese esportatore dotato di sovranità valutaria, per quanto "costosa" sul piano sociale, può effettivamente portare ad un miglioramento della bilancia commerciale e, per questa via, ad una riduzione del debito estero. Essa si rivela, tuttavia, una ricetta dai soli effetti recessivi nella misura in cui si tenti di applicarla, come si sta facendo, ad un’intera area valutaria (quella dell’Euro) il cui saldo commerciale consolidato con il resto del mondo è tendenzialmente nullo. Ma, di nuovo, l’irrazionalità è solo apparente: in questo caso, l’austerità predicata dalla BCE diviene, infatti, funzionale ad un disegno complessivo di ristrutturazione del sistema produttivo europeo ad uso e consumo dei capitali dei paesi "forti", e in particolare dell’industria tedesca.


3.  Lo scenario che ha disegnato è molto suggestivo.  Tuttavia, secondo altri studiosi, le cause della crisi economica, a livello europeo, sono molteplici.  
Per esempio, si è fatto osservare che la crisi è iniziata più o meno a partire dall’adozione dell’Euro e dall’ingresso della Cina nella WTO, un’opportunità che le ha permesso di agire in piena libertà su tutti i mercati, in particolare sotto il profilo delle esportazioni di manufatti, in un regime di concorrenza sleale che questo paese pratica ormai da anni.  In effetti, non è un mistero per nessuno che la Cina, con le sue esportazioni di merci spesso scadenti ma altamente competitive sul piano del prezzo  (grazie al ricorso al dumping, a costi di produzione più bassi anche per l’assenza di un vero interlocutore sindacale, al controllo poliziesco sulla società),  ha messo in ginocchio interi comparti produttivi, come ad esempio quello tessile italiano.  (Resta da chiedersi, peraltro, come sia possibile che ad un membro della WTO -con l’obbligo, quindi, di rispettare i diritti umani, civili e politici-  sia consentito mantenere un regime di puro stampo dittatoriale, dove il ricorso alla tortura, così come il traffico degli organi dei ‘giustiziati’, spesso per motivi politici o religiosi, rappresentano la norma.  Per non parlare dell’occupazione militare del Tibet.)   
Alla ‘questione cinese’  vanno aggiunte le pratiche spregiudicate di grosse banche USA, la crisi dei subprime, la politica dei prestiti facili, politica che ha costretto il Tesoro americano a sostenere massicciamente interi comparti produttivi, a partire da quello bancario ed automobilistico, aumentando però ancora di più il deficit pubblico.  Senza contare l’enorme massa di derivati che vaga a livello planetario, che è stimata intorno ai 700.000 miliardi di dollari e i giudizi, tanto negativi quanto sommari e spesso strumentali, emessi dalle agenzie di rating  (al centro peraltro di indagini giudiziarie avviate sia in Italia che in altri paesi).  
Il sostanziale fallimento della moneta unica europea avrebbe acuito ancora di più le difficoltà di buona parte delle economie dell’Eurozona.  D’altra parte, l’indebitamento pubblico statunitense sarebbe all’origine della cautela con cui Washington si muove nei confronti di Pechino, visto che, com’è noto, quest’ultima detiene il più grosso pacchetto estero di titoli di stato americani.  Insomma, la Cina non solo non aiuterà i paesi a rischio di default, come si sottolinea nel libro  (e infatti si è visto quanto siano serviti i patetici tentativi del passato governo, ma anche dell’attuale esecutivo, di convincere la finanza cinese ad acquistare i nostri bond), ma sembra che stia facendo di tutto per accelerare la crisi, in una prospettiva che dovrebbe permetterle, alla fine, di impadronirsi di quei gioielli dell’economia europea che non sono ancora in suo possesso.  In quest’ottica, l’economia viene concepita come uno strumento alternativo per raggiungere obiettivi che in passato si ottenevano soltanto con il ricorso alle armi.  Anche se non si vuole accettare la teoria di un piano costruito a tavolino dai vertici di Pechino per mettere le mani sui centri nevralgici dell'economia di interi paesi, viene da chiedersi da dove provengano gli enormi flussi di capitali con cui si acquistano  -in contanti, un dato non trascurabile- , in Europa come in altre aree geografiche, intere aziende con migliaia di dipendenti e decine di migliaia di esercizi commerciali.   

L’atteggiamento degli italiani e degli europei in genere nei confronti della Cina è un indice di quanto i vecchi pregiudizi colonialisti, con "l’altro da sé" costantemente descritto come "barbaro" o "selvaggio", non abbiano mai realmente abbandonato il Vecchio Continente. Mi faccia dire che trovo particolarmente curioso (ma sintomatico) che la concorrenza venga definita come "sleale" soltanto quando è il tessile italiano a soccombere di fronte alla concorrenza cinese, mentre, naturalmente, la stessa questione non veniva sollevata quando erano i prodotti tessili italiani a sbaragliare la concorrenza internazionale grazie al bassissimo costo del lavoro (che ci vede tutt’ora agli ultimi posti tra i paesi avanzati, addirittura dietro a Grecia e Portogallo), ad orari di lavoro massacranti, e ad un’evasione fiscale endemica e politicamente tollerata. Che le produzioni cinesi siano limitate a magliette di bassa qualità e giocattoli è un altro mito da sfatare: la verità è che la Cina ci surclassa, ormai, su tutti i fronti, comprese le produzioni ad alto contenuto tecnologico. Sul Tibet e suoi diritti umani, invito, poi ad un approfondimento che vada oltre la retorica manichea (e tutt’altro che disinteressata) della cinematografia, quella sì davvero scadentissima, hollywoodiana. Andrebbe, ad esempio, ricordato che il regime dei Lama ha rappresentato per secoli una teocrazia feudale e reazionaria, segnata dall’uso sistematico della tortura e della mutilazione, con un tasso di mortalità infantile tra i più alti al mondo e un tasso di scolarizzazione tra i più bassi. Così come andrebbe ricordato che la regione del Tibet è parte integrante della Cina da, ad esempio, molto prima che esistesse uno stato italiano unitario, e che tale unità territoriale è stata messa in discussione dalle potenze occidentali, guarda caso, soltanto dopo la rivoluzione comunista. Insomma, se volessimo davvero approfondire la nostra conoscenza delle contraddizioni, reali e apparenti, di una gigantesca nazione-continente come quella cinese, le sorprese non mancherebbero. Tornando alla crisi dell’Eurozona, certo la Cina non ci salverà, perché, per ragioni di "tenuta interna", non potrà rappresentare per molti anni ancora un mercato di sbocco (netto) per le produzioni e per i capitali europei. Escludo, però, che la dirigenza cinese sia interessata ad un’intensificazione della crisi europea: i governanti cinesi agiscono sempre con una prospettiva di medio-lungo termine, non amano, anche per ragioni culturali, gli shock economici e politici, e di certo sanno bene che il loro paese ha ancora bisogno della domanda europea. No, davvero non è la Cina il nostro problema.


4.  Vorrei precisare che l’annotazione sul tessile che ho fatto nella domanda precedente era puramente esemplificativa e comunque direttamente legata alla realtà italiana.  Quanto al dumping, mi sembra che sia ritenuto illegale dalla stessa WTO.  Sul Tibet  (e forse anche su alcuni aspetti della realtà interna cinese), credo che le nostre posizioni siano destinate a non convergere, alla luce anche delle esplicite, reiterate, veementi denunce di Amnesty International e di altre agenzie che si occupano di diritti umani.  Ma potremmo anche discutere su una certa demonizzazione del colonialismo, presentato quasi sempre come fonte di tutti i mali dei paesi in via di sviluppo o emergenti.
Ciò premesso, torniamo invece a ciò che ci unisce, e in particolare a J. M. Keynes.   Il ruolo attivo dello Stato, nel nostro Paese, ha significato, e significa, anche il controllo di pacchetti azionari di maggioranza di imprese considerate strategiche  (a partire da Finmeccanica, ENI, Enel)  e un esercito di dipendenti pubblici, che in Italia ha raggiunto però già livelli considerevoli, e a fronte del quale non corrispondono servizi adeguati  (basti pensare a come funzionano molti ospedali, le ASL, le ferrovie e i trasporti pubblici in generale, le poste, per non parlare della burocrazia, che continua a pesare come un intollerabile fardello su moltissimi cittadini) . 
Secondo lei, è possibile conciliare un potenziamento del ruolo dello Stato in termini di occupazione e comunque di supporto alle imprese che vogliono assumere, con beni e servizi che siano concorrenziali, sul piano del prezzo e della qualità, rispetto a quelli offerti dai privati ?  Altrimenti si rischia soltanto di dilapidare immensi capitali pubblici per creare occupazione sostanzialmente parassitaria e comunque improduttiva, secondo una visione di statalismo oppressivo che francamente non mi  sembra più accettabile.  Io mi chiedo spesso, ad esempio, per quale motivo ci si ostini a non privatizzare la RAI e a scaricare sui contribuenti il peso dei suoi debiti  (per le spese folli che fa)  con l’odioso balzello del canone. 
A parte la patrimoniale  (v. oltre)  e il sostegno a chi vuole investire in Borsa  (oggi negletta da ampie fasce dei risparmiatori, una realtà che considero scandalosa), quali modi concreti per uscire dalla crisi esistono e in quali tempi, a suo giudizio, si potrebbe tornare, adottandoli, alle condizioni precedenti ?  
Quali insegnamenti di Keynes e di uno dei suoi interpreti più originali, Hyman P. Minsky, che da anni aveva anticipato la crisi attuale  -un economista di cui lei è uno degli studiosi più autorevoli e al quale lo scorso anno la Fondazione A. J. Zaninoni e il Dipartimento di Scienze economiche "Hyman P. Minsky" dell'Università di Bergamo hanno dedicato un convegno, con la sua partecipazione (qui per ascoltare la registrazione del suo brillante intervento )-, si potrebbero seguire ? 

La logica del ragionamento di Keynes è semplice e inconfutabile. Dato che è il volume effettivo della domanda di beni e di servizi a vincolarne la produzione, e dato che la domanda espressa dallo Stato può sopperire, specie in momenti di crisi, alla carenza di investimenti privati, le politiche fiscali (leggi: di spesa) dovrebbero sempre avere natura anti-ciclica. Diversamente, non soltanto esse finiscono per accentuare le tendenze cicliche, ma difficilmente sono in grado di raggiungere gli obiettivi dichiarati. Ad esempio, il tentativo di comprimere il deficit pubblico mediante politiche di tagli alla spesa e/o di aumento della pressione fiscale produce una caduta della domanda aggregata, dei redditi e della capacità di spesa dei soggetti economici, e dunque dello stesso gettito fiscale, che può più che compensare i "risparmi" legati alla riduzione di spesa o/o all’aumento delle aliquote. In tempi di crisi, la soluzione non può essere, dunque, "meno spesa" o "più tasse" – senza contare che, come è stato sottolineato in precedenza, e come ormai viene quasi unanimemente riconosciuto nel dibattito accademico internazionale, le cause ultime della crisi sono da ricondursi agli squilibri esteri dei paesi-membri dell’Eurozona, e non ad un loro presunto eccesso di indebitamento pubblico. La via d’uscita dalla crisi deve, invece, passare attraverso una maggiore presenza del settore pubblico, non soltanto in veste di fornitore di ultima istanza della domanda di beni e di servizi, ma nel ruolo di vero e proprio "pianificatore" dell’investimento sociale. In particolare, lo Stato dovrebbe assumere il ruolo di datore di lavoro di prima istanza della forza-lavoro inoccupata, impegnandosi direttamente nella produzione di quei beni collettivi (si pensi all’infrastrutturazione del territorio e ai servizi di rete, ma anche al credito e alle assicurazioni) la cui produzione non può essere delegata alla logica del profitto privato. A ben vedere, è questo, in tema di politica economica, il vero elemento di innovazione della riflessione di Minsky rispetto a quella di Keynes, e rappresenta un punto di contatto possibile tra la tradizione di pensiero liberale-keynesiana e quella radicale-marxista.


5.  L'Euro stenta sempre più visibilmente a reggere sotto il peso delle sue contraddizioni.  Il suo sostanziale fallimento non è nient’altro che la logica conclusione di un’idea sbagliata sul piano teorico, un’idea che è stata messa in pratica in modo semplicistico, maldestro e frettoloso, con una serie di improvvisazioni che riflettevano e riflettono la deplorevole incapacità di molti paesi europei di mettersi d’accordo anche su temi di fondamentale importanza, ma che limitano la sovranità nazionale, quali ad esempio il fisco e le politiche salariali.  Per non parlare poi del fatto che l’adozione della moneta unica doveva essere seguita, in tempi brevi, da un’integrazione economica e politica, cioè da un governo europeo  (di cui tuttora non si vede nemmeno l’ombra).   Una varietà incredibile di politiche finanziarie, di modelli di welfare e assenza di un governo federale: ecco quello che esiste oggi.  Il destino di questa moneta, in sostanza, era segnato sin dall’inizio, il suo fallimento era stato già annunciato da anni, come ha dimostrato Wynne Godley, il quale, vent’anni  fa, evidenziava in modo esplicito le carenze, le ambiguità e i difetti del Trattato di Maastricht, giudicando impossibile il successo di quanto si auspicava in esso.  Per citare le sue parole : La lacuna incredibile nel programma di Maastricht è che, mentre contiene un progetto per l’istituzione e il modus operandi di una banca centrale indipendente, non esiste un qualunque progetto analogo, in termini comunitari, di governo centrale.  Semplicemente ci dovrebbe essere un sistema di istituzioni che soddisfi a livello comunitario tutte quelle funzioni che sono attualmente esercitate dai governi centrali dei singoli paesi membri”.  L’indebolimento dell’attuale governance comunitaria, a partire dalla BCE, che comunque  non possiede gli strumenti per riforme incisive, sta facendo il resto, compromettendo la stessa figura dell’attuale Presidente, che pure, all’inizio del suo mandato, aveva fatto nascere speranze ed aspettative, riducendo subito il tasso di sconto.  Secondo lei, è ancora possibile rimediare a questa politica superficiale, dilettantesca, pasticciata, ottusa ?  Ed eventualmente in che modo ?  Ridiscutendo i trattati costitutivi, rinegoziando molti punti, approntando soprattutto un sistema di investimenti pubblici e meccanismi di coordinamento delle politiche bancarie, fiscali e salariali ?  Che altro ?  O non è preferibile uscire subito dalla zona euro  (almeno si potrebbe svalutare la propria moneta),  rischiando però la disintegrazione dell’intero edificio comunitario ?

Se la priorità è quella di salvare l’Unione Monetaria Europea, allora il primo passo dovrebbe essere quello di modificare lo statuto della BCE. Questa dovrebbe abbandonare l’obiettivo unico della stabilità dei prezzi, a favore di quelli della piena occupazione della forza-lavoro e della stabilizzazione dei valori finanziari. A tal fine, alla BCE dovrebbe essere concesso di intervenire illimitatamente sui mercati primari dei titoli del debito pubblico per stabilizzarne il corso e dunque i rendimenti. Ciò consentirebbe alle economie periferiche di ridurre l’onere sul debito e di destinare tali risorse ad investimento pubblico (meglio se in infrastrutture, formazione e ricerca). Il rischio di tensioni inflazionistiche (che non siano da shock sui fattori di costo) è, in questa fase, praticamente nullo, mentre basterebbe il semplice annuncio che la BCE è disposta ad attivare le contromisure necessarie a contrastare efficacemente la speculazione sui debiti sovrani per mettere fine ad ogni turbolenza sui titoli di Stato. Naturalmente, anche una volta adottati tali provvedimenti, rimarrebbe pressoché inalterato il problema del divario competitivo tra centro e periferie dell’Eurozona. Al fine di ridurre gli squilibri commerciali e finanziari, si renderebbero, perciò, necessari sia un piano massiccio di investimenti pubblici nelle economie deboli, teso ad accrescerne la produttività del lavoro, sia un piano di rilancio dell’occupazione e della domanda interna all’Eurozona, che, infine, un meccanismo di riequilibrio dei differenziali salariali e inflattivi. Gli ultimi due obiettivi potrebbero essere efficacemente perseguiti mediante l’introduzione di uno "standard salariale europeo" che, ad un tempo, risollevi la quota-salari sul PIL dell’Eurozona ed ancori la crescita dei salari nominali di ciascun paese-membro all’andamento della bilancia commerciale. Per una descrizione dettagliata di tale meccanismo rinvio al testo de "L’austerità è di destra". La stessa efficacia degli Eurobond è, del resto, legata all’introduzione di meccanismi del tipo appena descritto, nonché ad una maggiore integrazione fiscale europea, che garantisca un flusso costante di trasferimenti dalle economie forti a quelle deboli. In assenza di tale integrazione, lo strumento degli Eurobond potrebbe, infatti, finire per contribuire ad estendere il "contagio" finanziario all’intera area valutaria, anziché a mitigarne la portata. Quanto all’annoso dilemma "Euro sì, Euro no", il punto è che il nostro governo dovrebbe concordare con gli altri governi dei paesi periferici, Francia inclusa, una via d’uscita. Se, infatti, la politica di potenza tedesca non desse cenni di cambiamento, allora per il nostro e per gli altri paesi del Sud l’unica soluzione per evitare la totale desertificazione produttiva sarebbe non soltanto quella di un’uscita pilotata dalla moneta unica, ma anche una ridefinizione degli stessi accordi di libera circolazione delle merci e dei capitali con le altre economie dell’unione. Come abbiamo scritto nel libro, il rilancio dell’unità europea potrebbe dover passare attraverso la chiara evocazione dei rischi legati al suo totale fallimento.


6.  A parte quanto evidenziato sopra sulla costruzione comunitaria, quali altri provvedimenti, a livello europeo e nazionale, si dovrebbero adottare per combattere la crisi, senza aggravare ancora di più gli squilibri sociali
Una riforma del sistema monetario internazionale, che però richiederebbe tempi biblici, viste le difficoltà per trovare punti d’intesa ?
La Tobin Tax, apparentemente più rapida da realizzare, ma altrettanto problematica quanto all’efficacia, perché richiede la collaborazione di tutti i paesi ?
La lotta all’evasione ?
La riforma del sistema fiscale  (un sistema considerato tra i più iniqui in Europa)  che preveda anche l’abolizione del sostituto d’imposta  (auspicata, per esempio, da Antonio Martino) ?
La patrimoniale, più volte invocata da Giuliano Amato e da Warren Buffett ?  In effetti, sembrerebbe essere la soluzione migliore, visto che è stata già adottata  -o è sul punto di essere adottata-  in altri contesti geo-politici.  Mi riferisco soprattutto alla recente decisione del governo liberale dell’Ontario, di introdurre una sovrattassa del 2 % su chi guadagna piu' di 500.000 dollari all'anno.  La misura, anche se colpisce soltanto lo 0,2 %  (circa 22.000 unità), dei contribuenti della provincia canadese, dovrebbe servire (con nuove entrate pari a 470.000.000 di dollari a partire dal 2013)  a ridurre il deficit del bilancio e a riportarlo in una situazione di parità entro cinque anni.  Dopo di che verrebbe tolta.  Purtroppo, in altri paesi, a cominciare dal nostro, non tutti sono così virtuosi come il miliardario americano e il governo di  Ottawa, anche se Luca di Montezemolo  si è espresso più volte a favore di tale misura.  
Quali sono, secondo lei, i motivi di questa consistente, e spiacevole per noi, diversità ?  E inoltre, in quale prospettiva andrebbe inquadrato tale provvedimento ?  Imposte solo sui redditi o anche sui capitali ?  E a partire da quale cifra e in che percentuale ?  Infine: condivide o respinge l’idea che se si usasse la leva tributaria per i grandi patrimoni  (quelli, per intenderci, superiori al milione di €), appunto con un prelievo forzoso, questi stessi capitali prenderebbero la via dell’estero ?   Una dichiarazione quantomeno incauta e che certo non contribuisce a dare ai nostri servizi di controllo tributario quell’immagine di professionalità e di efficienza che dovrebbero meritare. 

Una maggiore equità fiscale, con una redistribuzione del carico dai redditi da lavoro e dai consumi di base, ai redditi da capitale e alle rendite (nonché ai consumi di lusso) è non solo moralmente auspicabile, ma potrebbe contribuire a rinvigorire la domanda interna del nostro paese. L’idea che i capitali non debbano e non possano essere tassati "perché altrimenti scappano" è non solo naïve, ma empiricamente infondata. Un discorso analogo può essere fatto per l’imposta sui grandi patrimoni che, di nuovo, risponde all’esigenza, economicamente razionale, di spostare il peso della tassazione dai flussi di reddito ai fondi inattivi di ricchezza. Deve, però, essere chiaro che agire a valle delle disuguaglianze è un provvedimento necessario, ma non sufficiente a produrre un reale avanzamento dei rapporti sociali. Ciò di cui abbiamo bisogno è, infatti, che lo Stato torni a svolgere un ruolo di primo piano non soltanto nella redistribuzione, ma anche nel processo di creazione delle ricchezza. È necessario, cioè, ripristinare, ovvero ripensare ex-novo, la possibilità di un controllo democratico su "cosa, quanto e come" si produce annualmente nel nostro e negli altri paesi europei. È, in fondo, questa ritrovata "modernità del piano" il messaggio più inattuale, e perciò anche più politicamente cogente, de "L’austerità è di destra".