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domenica 2 agosto 2015

Chi ha paura di Ludwig Tieck ? Intervista a Enrico Bernard.

Enrico Bernard
 di  A. Lalomia

Fino a che punto il rispetto per un grande autore può condizionare la ricerca di quegli aspetti della sua vita e della sua opera che potrebbero gettare un'ombra sulla sua immagine ? 
È una domanda che assume un particolare spessore quando ci si deve confrontare con quelle figure della tradizione letteraria su cui esiste un consenso di critica e di pubblico pressoché unanime.  
In definitiva: può un critico, spinto dal desiderio di ricostruire determinati percorsi creativi seguiti dalla celebrità nazionale, avventurarsi nel campo delle analogie, per alcuni irriverenti, ma pur sempre verosimili, se dimostrate scientificamente e filologicamente ?  Può questo stesso critico sostenere, prove alla mano, ad esempio, che uno dei numi tutelari della nostra letteratura, Luigi Pirandello, ha utilizzato come fonte d’ispirazione per alcuni suoi testi  -in un modo che rasenta la traduzione letterale-  la produzione artistica di un grande esponente del Romanticismo tedesco, Ludwig Tieck, ‘sommergendo’ quelle opere di riferimenti a Tieck, ma senza dichiararlo esplicitamente (a differenza di quanto ha fatto per altri)  ? 
Fino a che punto i numerosi rimandi tra Pirandello e Tieck possono considerarsi come una legittima attività compiuta da un autore in cerca di un’idea ?  Fino a che punto questa stessa attività non deve invece essere giudicata come un processo di acquisizione inconsueto e forse discutibile ? 
Parliamo di questo tema  (ma non solo)  con Enrico Bernard, critico letterario, autore, regista e docente attivissimo a livello internazionale, che ha affrontato la questione in un saggio apparso per la prima volta nel 2006 sulla “Rivista di studi germanici”, riproposto  poi su "Italica" e apparso recentemente anche  su Academia.edu  e su altre testate scientifiche.
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1. Quando ha iniziato ad accorgersi delle analogie tra Tieck e Pirandello e che cosa l’ha spinta ad approfondire il discorso ?

Nel 1983 e nel 1987 ho curato per le edizioni Costa e Nolan e Editori Associati la prima traduzione italiana di due opere ancora sconosciute nella nostra lingua di Ludwig Tieck: Il  mondo alla rovescia e Il principe Zerbino, ovvero quasi una continuazione del gatto con gli stivali. I testi  del 1797 e del 1798 erano totalmente inediti in italiano e, addirittura, il mastodontico Zerbino, era stato dimenticato in Germania dall’ultima ristampa di metà Ottocento. Il caso ha voluto che proprio durante le traduzioni di Tieck mi stessi anche occupando del periodo tedesco di Pirandello. Ho così scoperto che a Bonn Pirandello dimorò nelle vicinanze  di un libraio tipografo che aveva cominciato le riedizioni critiche dell’opera completa di Tieck. Subdorando qualche affinità tra il genio romantico tedesco e il giovane drammaturgo siciliano in cerca di fortuna e di spunti in terra tedesca, me lo sono immaginato davanti alla vetrina di quel libraio tipografo ad ammirare la novità delle opere di Tieck fresche di stampa. Quando poi, prefando le edizioni italiane del romantico tedesco ho letto il discorso pronunciato da Bonaventura Tecchi in occasione della commemorazione di Pirandello, nella quale Tecchi cita una domanda da lui posta a Pirandello su Tieck che aveva generato qualche nervosismo e disagio, beh allora ho capito che occorreva raccogliere una prova scientifica sulla base di un confronto testuale serrato.


2. Ha incontrato difficoltà nel proporre le sue tesi alla critica italiana ? Come sono state accolte ?

 Ludwig Tieck
Luigi Pirandello
Le mie tesi sono state accolte con grande interesse e avallate dalla critica a livello internazionale. Ho tenuto numerose conferenze nei dipartimenti di germanistica e di italianistica di Università americane  e canadesi come Toronto, Wake Forrest e Kingstone. Poi il mio saggio è stato pubblicato nella Rivista di Studi Germanici diretta da Paolo Chiarini e in Italianistica diretta da Andrea Ciccarelli e Antonio Vitti edita dall’Università dell’Indiana. Tuttavia la critica italiana accademica, nonostante la novità, la documentazione scientifica da me proposta sorretta da riscontri autorevoli, ha preferito ignorarmi. Ad esempio di recente sono stato escluso, tra polemiche, dal convegno pirandelliano dell’Università di Bruxelles. È di tutta evidenza che la natura del problema che pongo, ossia la necessità di un confronto testuale interculturale e interlinguistico, va ben oltre le competenze e capacità del critico letterario e/o teatrale italiano che poco o nulla sa di letteratura tedesca. Eppure la vetta Pirandello, che fu pure germanista e traduttore dal tedesco, non si può “aggredire”  e scalare solo dal versante italiano: vi sono altre piste e linee dirette su altri versanti che, vuoi per comodità, vuoi per limitatezza di mezzi culturali, vuoi per un falso senso protezionistico del Genio nazionale – la grandezza del quale non ha bisogno di nessuna protezione e non è da me messa assolutamente in discussione – non sono state praticate.  E chi ci si vuole avventurare, come il sottoscritto,  lo fa  a suo rischio e pericolo.


3. A fronte del silenzio mostrato dalla critica italiana accademica, vuole aggiungere qualcosa sulla critica germanofona ?

 Bonaventura Tecchi
Ho appena risposto in parte a questa domanda. Devo però aggiungere che se la critica italiana originariamente, con Tecchi e Tilgher ad esempio, aveva intuito il forte legame tra Pirandello e Tieck – Bonaventura Tecchi del resto era un ottimo germanista – ma alla morte di Pirandello, fresco di premio Nobel, aveva preferito soprassedere ad un’analisi profonda accontentandosi della prima forte “impressione” di un’affinità non solo culturale ma anche testuale, ebbene la critica tedesca aveva smascherato subito Pirandello fin dalla prima edizione tedesca nei primi anni Venti dei Sei personaggi per la regia di Max Reinhardt. In Germania insomma si parlò subito del “Teatro-nel-teatro” pirandelliano come una rivisitazione del modello tieckiano. Tant’è vero che la prima edizione di Questa sera si recita a soggetto a Berlino, il testo che più denuncia evidenti influenze letterali dello scrittore romantico tedesco su Pirandello, si rivelò un fiasco: la critica tedesca bollò come déjá vu il testo;  e Pirandello rinunciò al sogno di un exploit teatrale in Germania (dove avrebbe voluto trasferirsi con Marta Abba). Dimodoché la mia ricerca ha sicuramente un valore dimostrativo,  testi alla mano, per la critica tedesca che però è già ben allertata sul problema: mancava solo il riscontro filologico che io sono riuscito a raccogliere.


4.  Se ho interpretato in modo corretto il suo pensiero, il suo saggio ruota attorno a due punti centrali:

a. Pirandello avrebbe fatto un uso talmente eccessivo (‘disinvolto’ ?) della sua conoscenza di Tieck e della letteratura tedesca in generale, che lei all’inizio del suo saggio parla esplicitamente di “legame intrinseco e strutturale tra i due, che va ben oltre i limiti di una naturale “influenza” di un autore su un altro.” (pag.1).
In altri punti del testo, lei è ancora più esplicito:
“Le similitudini, le analogie, diciamo pure le trascrizioni o traduzioni letterali  di Pirandello sono innumerevoli.”. (pag. 6)
“La conclusione è semplice: Pirandello non solo ha ripreso la teoria del "teatro-nel-teatro" servendosi a piene mani dei testi di Tieck, ma ha addirittura utilizzato allo stesso modo, e con identici risultati, le fonti letterarie (Cervantes) dell'autore romantico.” (pag. 7) 
“Per concludere: nell'intera opera drammatica di Pirandello, fino a I giganti della montagna, l'ombra di Tieck, o per meglio dire la sua spirituale e (letterariamente parlando) testuale presenza risulta evidente. Anzi, determinante.”  (pag. 9)  [Sottolineatura mia.] 
L’ultima citazione mi sembra oltremodo importante, perché in definitiva si riferisce all'intero corpus della produzione pirandelliana.

Senz’altro Tieck è il nume segreto – quello dichiarato dall’Agrigentino ovviamente è Cervantes - che ispira tutta l’opera e il pensiero di Pirandello. Intendiamoci: Pirandello non commette nessun “reato” e la sua grandezza non deve essere sminuita. In realtà, dico anche questo nel mio saggio, Pirandello drammaturgo ha il grande merito di recuperare la critica romantica alla società borghese tedesca di fine Settecento, quella classe di birrai e falsi nobili che rifiuta e inquina gli ideali libertari della rivoluzione francese, e ripresentarla con gli interessi all’ipocrita borghesia italiana che smarrisce il proprio senso d’essere, la propria identità politica, la propria ombra per dirla con Mattia Pascal, per andare incontro a compromessi ideologici, ideali, sociali pur di mantenere lo status quo del proprio benessere materiale. Casomai, se si vuol rinfacciare qualcosa a Pirandello, lo si dovrebbe attaccare dal punto di vista della chiarezza circa le proprie fonti. Non ci sarebbe stato niente di male ad esplicitare i legami con Tieck dopo averlo saccheggiato: anche Brecht saccheggiò L’opera dei mendicanti di John Gay, vantandosi addirittura di aver copiato bene: ma nessuno si sognerebbe di sminuire L’opera da tre soldi  per questo. Tutta la storia del teatro è una storia del “da”. Tutti i drammaturghi hanno preso e ripreso  da testi del passato. Qualcuno ha addirittura affermato che in realtà gli autori non fanno che riscrivere un solo testo, l’Edipo,  archetipo drammaturgico imperituro. Pirandello invece è stato un po’ meschino nascondendo la manina. Purtroppo si è inguaiato da solo dopo aver scritto nei saggi sull’arte che “chi copia una forma non fa arte ma artificio” distinguendo così l’Autore con la maiuscola dal mestierante e dallo scribacchino. A questo punto non ha potuto più dire: signori, la forma del Teatro-nel-teatro l’ho ricavata dal signor Tieck. Si sarebbe stroncato con le sue stesse mani. Di qui le reticenze e il tentativo di occultare le fonti, nella speranza miserevole quanto umana, che il destino letterario di Tieck rimanesse se non nel dimenticatoio, almeno in ombra, nella sua ombra.


b. La critica italiana, finora, sarebbe stata troppo reticente sui ‘prestiti’ da parte di Pirandello nei confronti di Tieck, forse nel timore di sminuire il valore del grande drammaturgo. Diverso invece il discorso per la critica germanofona, che ha riconosciuto subito i debiti di Pirandello verso Tieck e le analogie tra le opere dei due autori, come d’altronde ha ricordato lei, anche nel corso di questa intervista.
 Gustavo V di Svezia consegna
a Pirandello il diploma
e la medaglia del Nobel.
Alle sue conclusioni relative soprattutto alla critica italiana, si potrebbe comunque rispondere che, in particolare durante il fascismo, questa stessa critica  dopo aver esaltato Pirandello e averlo celebrato come una gloria nazionale (ovviamente con finalità di propaganda)-, si mantenne piuttosto cauta, per non dire silente, quando lo stesso Pirandello, che pure era stato insignito del prestigioso titolo di Accademico d’Italia, durante il conferimento del Premio Nobel (1934) si limitò a un discorsetto di circostanza, senza alcun cenno ai successi del regime e al suo ardore fascista  (che infatti non provava, vista anche la sua ingenuità politica). Da un accademico d’Italia ci si aspettava un minimo di celebrazione del regime, cosa che invece non avvenne. Quanto la scelta di Pirandello abbia irritato il regime (e quindi non solo la critica)  è dimostrato dal fatto, come ricorda Andrea Camilleri in un’intervista di qualche tempo fa, che al suo ritorno da Stoccolma Pirandello trovò ad accoglierlo non un’autorità, ma un semplice funzionario. Per non parlare del fatto che quando venne alla luce il suo testamento -con la richiesta di non volere alcun rappresentante del regime al suo funerale-  l’intero apparato si sentì quasi offeso, tanto che la notizia della scomparsa di quello che fino a qualche giorno prima veniva omaggiato come il più grande drammaturgo vivente, venne liquidata con poche righe, quasi si trattasse di un oscuro letterato di provincia.
Posso chiederle se le mie osservazioni sono realistiche o mancano di qualche elemento ?

La sua ricostruzione è precisa, ma manca un elemento, la questione del film  Acciaio. Il problema per il regime fascista non fu tanto il Nobel, posteriore all’avventura del film che Pirandello avrebbe dovuto realizzare sullo sfondo delle acciaierie di Terni, ma il successo a Hollywood di Pirandello  nei primi anni trenta che mise in guardia Mussolini. Il fascismo infatti aveva già perso un genio italiano come Guglielmo Marconi, non poteva permettersi un altro flop. Così quando a Pirandello si aprirono le porte degli studios per una serie di sceneggiature che portarono alla realizzazione di As you desire me con Greta Garbo da Come tu mi vuoi, ebbene Mussolini corse ai ripari per non perdere un altro genio italiano in direzione degli  Stati Uniti.  Richiamandolo in patria il Duce affidò a Pirandello un budget praticamente illimitato per la scrittura e la realizzazione in collaborazione col figlio Stefano Landi Pirandello di un kolossal sulle meraviglie tecnologiche delle nuove acciaierie di Terni e sulla figura del nuovo operaio d’acciaio forgiato dal fascismo. Lo stile documentaristico del regista tedesco Ruttmann, le aspettative propagandistiche di Mussolini, puntualmente disattese, naturalmente non si confacevano ad un maestro del dubbio e del rovello interiore come Pirandello. 

Così l’opera portata a termine (insomma, diciamo "conchiusa" tra tante difficoltà e contrasti) nel 1933 deluse e irritò Mussolini: altro  che operaio fascista tutto d’un pezzo chiesto vanamente a Pirandello, piuttosto il Duce si ritrovò nel 1934 a dover censurare ben altri operai, falliti e sull’orlo della depressione, i Tre operai di Carlo Bernari (edizione Rizzoli collana dei Giovani diretta da Cesare Zavattini). Mussolini fu colto da una crisi di nervi e comprese quanto Pirandello fosse lontano dagli ideali del fascismo. E per capirlo aveva perfino fatto spendere al Ministero della Cultura diverse centinaia di milioni dell’epoca, visto che il finanziamento del film di Pirandello si rivelò una vera fornace bruciasoldi. Di qui la freddezza del regime che vide nuovamente Pirandello, con il riconoscimento del Nobel, allontanarsi verso lidi stranieri dopo aver fallito in casa. Nella Casa del Fascio.


5.  Ritengo molto importante quanto ha appena detto circa l’orientamento politico di Pirandello, sottolineando l’estraneità pressoché totale del suo pensiero con l’ideologia fascista.  Con buona pace di quanti continuano a considerare l’A. del Fu Mattia Pascal e del Così è (se vi pare) alla stregua di un cortigiano del regime. Ma torniamo al saggio. A un certo punto, lei fa giustamente notare che:
a. esiste una discreta differenza tra ispirazione e plagio e in certi casi è piuttosto difficile individuare in modo netto la linea di separazione.
b. Anche Goethe trasse ispirazione dalla trilogia tieckiana, quantomeno per la scrittura del Faust  (Prologo), un’opera letta sicuramente da Pirandello.
c. Pirandello spesso ha cercato di glissare sul tema, anche se ha confessato candidamente a Bonaventura Tecchi di aver scritto una tesina proprio su Tieck, durante il primo soggiorno berlinese  (tesina di cui, però, si sarebbero perse le tracce). Tuttavia, egli sembra compiacersi, in alcune sue opere, di disseminare indizi fin troppo evidenti dei suoi debiti nei confronti dello scrittore tedesco. Cito soltanto un brano tra quelli particolarmente significativi del suo saggio: 


“E Pirandello, in Questa sera si recita a soggetto, chiamerà il suo Direttore con un nome tedesco: Hinkfuss, che possiede anche una valenza mefistofelica: il diavolo è zoppo, come vuole la tradizione faustiana. È un segnale. La verità è che Pirandello inserisce nella sua opera una serie di rimandi più o meno evidenti alle sue fonti. Procediamo nella lettura della prima didascalia dei Sei personaggi:
“Spenti i lumi della sala, si vedrà entrare dalla porta del palcoscenico il Macchinista [...]; prendere da un angolo in fondo alcuni assi d'attrezzatura; disporli sul davanti     e mettersi in ginocchio a inchiodarli” (49).
Pirandello qui cita testualmente l'inizio del III atto del Gatto con gli stivali, in cui il Macchinista (o Tecnico, come lo chiama Pirandello) è intento a discutere con l'Autore sulla scenografia da allestire.
“Ma, amico mio”—obietta il Macchinista di Tieck all'Autore—“non le sembra di chiedere un po' troppo nel pretendere che si debba allestire tutto quanto in così poco tempo?” (Il gatto con gli stivali 33).
Non bisogna sforzarsi molto per indovinare la risposta del Tecnico di Pirandello (sono le prime battute dei Sei personaggi) al Direttore di scena accorso al suono delle prime martellate: “Ma dico! Dovrò avere anch'io il mio tempo per lavorare!” (49).
Pirandello, abile nel costruire un labirinto intorno ai suoi riferimenti testuali, lascia però sempre in giro qualche indizio, qualche traccia, e cosi fa dire al Direttore di Scena: “Su, su portati via tutto, e lasciami disporre la scena per il secondo atto del Giuoco delle parti” (Sei personaggi in cerca d'autore 50).
I Sei personaggi in cerca d'autore iniziano infatti dal II atto di un'opera dello stesso Pirandello che la "Compagnia" sta per provare. Tuttavia la "problematica del II atto" si trova già in Tieck: all'inizio del III atto del Gatto con gli stivali l'Autore scongiura       il Macchinista-scenografo di intervenire perché “il secondo atto è andato a finire in modo assolutamente imprevisto” (33). “ [Evidenziazione, sottolineatura e corsivo miei.]

La domanda è: se Pirandello intendeva veramente nascondere i suoi prestiti da Tieck, per quale motivo si sarebbe divertito a inserire nelle sue opere tutti questi indizi ?   Più che di plagio (termine che peraltro lei usa in forma dubitativa), non si dovrebbe parlare di ‘tributo’ che Pirandello avrebbe voluto dimostrare a Tieck, in un sofisticato meccanismo di incastri e di abili giochi a nascondino, comunque riconoscibili ad un occhio esperto ? 
E d’altronde: per comporre il suo Gatto con gli stivali  Tieck non si è forse rifatto abbastanza esplicitamente all’opera omonima di Perrault ? E quest’ultimo non ha forse attinto, per la realizzazione della sua fiaba, al plurisecolare repertorio europeo relativo appunto alla leggenda del mitico  gatto con gli stivali  (Francesco Straparola, Giambattista Basile) ?  Per non parlare poi della versione successiva dei fratelli Grimm. Certo: un conto è ispirarsi, e un altro conto è attingere a piene mani.

 I fratelli Grimm
Penso di aver risposto in precedenza sul tema del “prestito letterario”. Tieck del resto non ha mai negato il suo rapporto con Basile, che anzi ha fatto conoscere in Germania traducendolo per i Grimm: ricordiamoci pure che Tieck fu posto per riconoscenza e stima proprio dai Grimm alla testa del movimento romantico e “usato” contro lo strapotere letterario di Goethe. Ricordo anche che Tieck è il traduttore in tedesco di Cervantes, e in parte anche a questa traduzione si deve il concetto romantico di “Ironie”. Sull’atteggiamento di Pirandello, sul motivo per cui dissemina la sua opera di “tracce” e di “indizi” dei suoi riferimenti letterali, posso solo fare alcune ipotesi. Una sopra tutte quante è la più verosimile: il Pirandello teorico del teatro che aspira ad una “forma” teatrale e drammaturgica originaria e tutta sua  (il cosiddetto “pirandellismo” secondo la formula coniata da Adriano Tilgher) si comporta diversamente, schizofrenicamente, rispetto al Pirandello autore che si sente e che in effetti è parte integrante di uno sviluppo drammaturgico che prevede un prima e un poi, una storia del teatro come tramandarsi di situazioni comiche, di strutture teatrali, di idee e di battute. Tieck deve tanto - e lo dimostra nelle parole e nei fatti -  a Cervantes, ma anche a Goldoni e a 
Carlo Goldoni
Gozzi. Pirandello deve tanto a tutti questi grandi autori – e non ne fa mistero, tranne che per Tieck. Tieck rappresenta per lui una mina vagante poiché limita la sua ambizione che va oltre il teatro, l’ambizione di essere un creatore di forme nuove. Ma, come possiamo ben immaginare, nessun autore crea forme veramente originarie, veramente nuove: tutti continuano da sempre e continueranno per sempre a riscrivere lo stesso archetipo teatrale. Così il Pirandello teorico che sente il peso della responsabilità di un’investitura filosofica che non ha – siamo sinceri, il “pirandellismo” come dice lo stesso Tilgher è una sempliciotta sinossi delle tesi dell’idealismo tedesco - cerca di guadagnare punti e prestigio fregiandosi del distintivo dell’inventore di una nuova forma teatrale. Tuttavia il Pirandello, che il teatro lo scrive materialmente e lo vive nei confronti del pubblico borghese e benpensante, sa benissimo che quella di dar forma sul palcoscenico addirittura ad una vera e propria “filosofia” è una chimera. Ecco dunque il Pirandello Autore tendere trappole al Pirandello Teorico nella speranza sotterranea ed inconscia di far prendere in castagna il suo alter ego. Ciò facendo, naturalmente, il Pirandello Autore sottoscrive anche una polizza assicurativa contro il rischio di essere un vero e proprio “plagiatore” ipocrita: per la miseria, ci ha lasciato tante di quelle tracce che ci voleva proprio una critica cieca e sorda per non sentirsi stimolata, da Pirandello stesso, ad un’attenta lettura degli indizi e ricomposizione del quadro. Lui ce lo ha detto, ha fatto di tutto per farcelo capire, siamo noi stati tardi a comprendere le relazioni.


6. La tecnica del ‘teatro nel teatro’ (al centro delle trilogie di Tieck e di Pirandello), non è certo stata inventata dal primo. Lei stesso ricorda alcuni autori che vi hanno fatto ricorso: Calderon (Il gran teatro del mondo), Goldoni (Teatro comico),  Shakespeare (Amleto).  E l’elenco, forse potrebbe continuare. In che cosa, allora, Tieck è stato così originale e innovativo da doverlo considerare il vero ispiratore di Pirandello ? La modernità ?  I temi trattati ?  Lo spirito dissacratore ?  Il linguaggio ?  

Lei parla giustamente di “tecnica del Teatro nel Teatro” per quanto riguarda gli illustri precedenti di Tieck. Con lui tuttavia la “tecnica’ diventa una struttura, cioè una forma drammaturgica che non è finalizzata unicamente alla “forma” della rappresentazione, ma anche ai “contenuti”. Con Tieck gli aspetti formali si fondono con i contenuti politici: sale  alla ribalta improvvisamente una borghesia incapace di produrre riforme, una borghesia che si impadronisce del palcoscenico per abolire ed eliminare ogni possibilità di “critica”, che vuole solo autocompiacersi e autocelebrarsi e che intende addirittura liberarsi di “quello scocciatore di un autore” perché tanto “quello che ci diciamo nel nostro salotto borghese è quello che vogliamo sentirci dire andando a teatro”: e  siccome noi sappiamo che cosa vogliamo sentirci dire “tanto vale che ce lo diciamo da soli   sostituendoci all’autore e agli attori”. Insomma, Tieck rigenera la tecnica del Teatro nel Teatro inventando la struttura del Teatro politico, fino a Brecht. E naturalmente fino a Pirandello – a meno che qualcuno non voglia contestare l’affermazione della politicità della struttura del Teatro nel teatro in Pirandello!                                                                                              


7.  Cambia qualcosa, secondo lei, nella considerazione della creatività e del genio di Pirandello a seguito delle sue ricerche ?

Assolutamente no. Qualcuno forse si offende se diciamo che Shakespeare ha saccheggiato la novellistica italiana da Boccaccio in poi? Giulietta e Romeo smette forse di essere un capolavoro se diciamo che è una storia adottata dalla nostra letteratura? Cambierebbe qualcosa nella valutazione di Shakespeare se si scoprisse da un’analisi e confronto testuale che tra la novella originaria e il dramma dei giovani amanti di Verona vi sono punti in comune, riprese, scambi letterari e letterali? Lo stesso dicasi e vale  per Pirandello.


8. Il suo saggio è la sintesi di una serie di conferenze che lei ha tenuto, tra il 2004 e il 2005, negli Stati Uniti e in Gran Bretagna.  Posso chiederle come sono state accolte, in quelle sedi, le sue conclusioni ?  E inoltre:  qual è l’immagine prevalente di Pirandello nelle università straniere -soprattutto anglofone e germanofone-  dove lei ha insegnato ?

 Klaus Mann
Il punto nevralgico è proprio questo: dal momento che sono stati scarsamente illuminati i punti di contatto tra Pirandello e la cultura tedesca, a parte le solite poche cose note,  è accaduto che la germanistica – anche qui sbagliando in proprio – generalmente se ne infischia di Pirandello, non considerandolo farina del suo sacco. Sono così saltate analisi e approfondimenti articolati sull’influenza, indiscutibile e sicuramente da non minimizzare, di Pirandello sulla drammaturgia e letteratura  tedesca del dopoguerra. Ad esempio, Klaus Mann del pirandelliano Mephisto ha letto Pirandello? Si è ispirato all’ Enrico IV del drammaturgo agrigentino? E il Peter Weiss de La persecuzione e l’assassinio di Jean Paul Marat rappresentato dalla compagnia filodrammatica dell’ospizio di Charenton?  Ecco dunque che alle deficienze  di una parte della nostra critica, reticente o non competente per un’analisi a 360 gradi, si deve la freddezza, meglio dire il disinteresse della critica tedesca verso Pirandello: una critica  che non si è mai resa compiutamente conto – e ripeto  non solo per colpa sua – che Pirandello, partendo da Tieck, rappresenta una pietra miliare anche nell’ambito della drammaturgia tedesca, a cominciare da Brecht per la natura del “teatro politico” di cui parlavo prima: la critica da opposte concezioni della società borghese che si avvia alla tragedia del nazifascismo.


9.  Lei è un attento studioso dei silenzi di una parte almeno della critica italiana. Escludendo quella, piuttosto recente, relativa a Vergapuò ricordare qualcuna delle altre sue puntualizzazioni  ?  E inoltre, come vengono accolte, in Italia, le sue ‘provocazioni’ ? In un testo, lei sembra accennare a silenzi e indisponibilità che certo non possono piacerle. E d’altronde, anche nel corso di questa intervista  lei ha ricordato i rischi che si corrono quando si vogliono varcare certi confini (v. soprattutto la risposta alla seconda domanda). Infine: ritiene che la critica italiana sia più  ‘conformista’  rispetto a quella di altri paesi ?

Anzitutto debbo dire che non si può fare di tutta l’erba un fascio. Parlare di critica genericamente significa compiere un atto di superbia e di ignoranza altrettanto grave. Quindi devo ricordare che nella mia attività ho conosciuto decine di studiosi e docenti competenti e letto innumerevoli belle  e illuminanti pagine di critica.  Ci mancherebbe che non ci siano stati e non ci siano in  attività  fior di critici tutt'altro che pigri: io non ho nessuna autorità per fare liste da primo della classe alla lavagna. Posso però dire, senza paura di sbagliare di molto, che  il problema nasce invece quando la critica vuole trasformarsi in politica culturale, incancrenendosi, irrigidendosi, sterilizzandosi e cloroformizzandosi per “partito preso”: in sostanza ripetendo formule accademiche preconfezionate e schematismi   che escludono  aprioristicamente nuove idee e prospettive di ricerca.


10. Naturalmente, quando parlavo di critica italiana, mi riferivo a ciò che ho osservato sopra e alle sue stesse puntualizzazioni. Posso chiederle se l’indifferenza  (l’ostracismo ?)  di una parte di questa stessa critica nei suoi confronti può essere paragonata al clima di scarsa considerazione che alcuni settori del mondo culturale italiano mostrarono, quantomeno in certi periodi, nei confronti dell’opera  e dell’intera attività artistica di Carlo Bernari (e non soltanto durante il fascismo, circostanza del tutto scontata) ?

 Carlo Bernari
Distinguiamo bene i periodi. Durante il fascismo Mussolini si trovò a non poter censurare Tre operai il romanzo e vietarne  - come avrebbe voluto - la vendita. Questo perché il romanzo d'esordio di Bernari fu osannato subito  dai giornali e critici del regime come esempio di romanzo "realista" che andava contro i teorici del "bello scrivere", gli ermetisti eccetera. Solo Mussolini, che veniva dalla cultura socialista, comprese ma con qualche mese di ritardo rispetto agli intellettuali del Fascio che il romanzo era dichiaratamente marxista. E  profondamente antifascista, insomma un pericolo. Il Duce corse ai ripari, ma non poteva sconfessare il proprio apparato culturale. Così si limitò ad una "velina", un ordine perentorio distribuito a tutta la stampa: vietato recensire Bernari, che andava semplicemente messo in ombra. Saltò ad esempio, al momento di andare in stampa, la recensione di Pancrazi per il Corriere della Sera. Nel dopoguerra invece la critica "riscoprí" Bernari: da Giuliano Gramigna a Carlo Bo, da Carlo Salinari ad Asor Rosa, da Davico Bonino a Barberi Squarotti, da Walter Pedullà a Geno Pampaloni, e poi Bernardini, De Michelis, Lupo, Franchini, Calabrò - la lista è lunga anche tra le nuove leve, non posso citarli tutti - hanno ampiamente e ottimamente scritto su Carlo Bernari. Tuttavia, quando è scattata la molla del "partito preso", il vecchio concetto  di engagement, di impegno, che Bernari considerava in senso più ampio e non come forma di asservimento agli interessi della rivoluzione e del partito comunista, beh allora è scattato l'ostracismo, non critico, ma politico. Per esempio creando allo scrittore difficoltà nei premi e nei circoli letterari, nelle accademie. E la cosa strana è che il primo stroncatore da fascista di Tre operai  nel 1934 fu anche il primo e ultimo stroncatore da comunista nella seconda metà degli anni Quaranta di Bernari: Elio Vittorini. Il quale dichiarò dopo la parentesi togliattina di non voler suonare il piffero per la rivoluzione, ma nei fatti mantenne sempre un ruola di "sponda" ad esempio con Gastone Manacorda e l'intellighenzia vicina al PCI che gravitava in Einaudi e ne condizionava le scelte, ad esempio rifiutando la proposta di Pavese di pubblicare Bernari. Ma di questo si è occupato recentemente Dario Fertilio sul Corriere della sera (INEDITI:  IL DIFFICILE RAPPORTO DELL' INTELLETTUALE ANTIFASCISTA CON L' EINAUDI E IL PCI. L' OSTILITÀ DI VITTORINI - Carlo Bernari, l'esiliato in casa. In un carteggio le confidenze di Pavese: a Milano non ti vogliono).


 Carlo Bernari con il figlio Enrico
11. Lei ha composto riduzioni teatrali di alcuni romanzi di Carlo Bernari  (Tre operaiTanto la rivoluzione non scoppierà ; Il giorno degli assassinii). Posso chiederle che cosa si prova a confrontarsi con un A. così famoso ?

È una domanda apparentemente imbarazzante, dico apparentemente perché, e qui l'esempio di  casa Pirandello e del rapporto del padre Luigi col figlio drammaturgo Stefano Landi mi è di conforto,  in realtà io e mio padre, come sicuramente avvenne tra Pirandello e il figlio Stefano, abbiamo  lavorato insieme e non ci siamo  confrontati. Così la scrittura di un testo teatrale da un romanzo di mio padre è avvenuto con l'ausilio e sulla base di una "catena di montaggio", un "albero di trasmissione" culturale e artistico che ha collegato, messo in sinergia le nostre attività distinte ma non separate. Non si trattava insomma di semplice di collaborazione o supervisione di un autore "più grande" nei confronti di un giovane capace ma da tenere sott'occhio. Il dibattito  era continuo, preparatorio, operoso e dunque anche operativo.   


 Enrico Bernard
12. Lei trascorre gran parte della sua vita all’estero.  È una realtà legata a specifiche esigenze professionali o corrisponde anche a una precisa scelta esistenziale ? In altri termini: si sente più ‘in casa’ in Italia oppure in altri paesi ?

Io mi sono sempre sentito in casa in Italia, purtroppo è l'Italia che non è più in casa sua. È andata via, sparita. Così mi tocca "uscire di casa" per potermi dire:  la casa che avevi è crollata e non è rimasto niente. Mettiti l'anima in pace, raccogli le tue cose e mettiti in cammino. Strada facendo pianterai  la croce o le radici da qualche altra parte. Per dirla con Chatwin, ma all'incontrario, cioè da quella che ritenevo la mia casa, la mia patria: io che ci faccio qui?

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I due protagonisti



Ludwig Tieck :  31/05/1773 - 28/04/1853.


Luigi Pirandello :  28/06/1867 -  10/12/1936.



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    Enrico Bernard

Per le informazioni biografiche, la produzione artistica, i saggi critici  (a partire dalle opere in volume), l’attività teatrale, si rimanda al ricco sito di Bernard  che ospita anche un’ampia rassegna della sua produzione giornalistica.

Cfr. anche :

Wikipedia, ad vocem  






  

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